Quando la primavera si dispiegò dal cuore
della terra in fioritura
egli si trascinò ancora una volta con tormento
attraverso il mondo che stava per lasciare.

I campi smaglianti e il verde del seminato
lo salutarono con un rigoglio luminoso,
e il baldacchino d’ombra
della foresta oscura fremette intorno a lui.

Là, sul morbido velluto del muschio,
vede, seminascosta dal verde,
placidamente addormentata e libera da affanni,
una figura incantevole distesa.

Se sia un fanciullo o una ragazza
non si arrischia a indovinarlo.
Sottili fili di seta, corti e biondi,
sventolano intorno alla testolina tonda.

Ancora tenere sono le braccia snelle,
il corpo non ancora sbocciato,
e tuttavia  il petto gli si mostra
già scosso dalla passione.

La guancia brilla di un fuoco rosato,
la bocca è sorridente e astuta,
attraverso il velo vaporoso delle ciglia
scherzano gli occhi di un azzurro limpido.

E lui, ebbro nella letizia della primavera,
se ne sta lì, commosso nel profondo;
assorto nella dolce immagine,
si rende conto in pieno di cosa sta perdendo.

Ma insistente lo ammonisce l’ora
che da quel posto deve partire in fretta.
Ahimè, brucia già sulla sua bocca
il caldo ardore del bacio dell’addio.

Egli è scomparso nella nebbia
e subito la fanciulla si ridesta dal sonno.
Il bacio l’ha profondamente infiammata,
come se un fulmine l’avesse colpita.

Tutti i germogli si sono dischiusi 
che il suo piccolo petto conteneva: 
in un attimo tramutata in una giovane,
s’innalza dalla bara dell’infanzia.

I suoi occhi celesti battono
gravi e illuminati dall’amore:
sembra invocare la felicità
che aveva perso senza sapere come.

Ma nessuno le dà un riscontro,
tutti la guardano stupiti
e le sorelle nei loro girotondi
non capiscono cosa le sia accaduto.

Ahimè, neppure lei lo sa. Le lacrime
le raccontano solo del loro dolore,
e un desiderio insondabile
la trascina lontana da se stessa.

La spinge innanzi, per ritrovare l’immagine
che sopravvive dentro di lei,
che l’intuito le profetizza,
che nei sogni le ondeggia intorno.

Ha scavalcato rupi
e va su e giù per le montagne,
finché raggiunge un fiume
che le sbarra il correre affannoso.

Sull’umido dell’erba della riva
rinfresca i suoi piedi brucianti
e, riflessa nello specchio liquido,
scorge la propria immagine.

Vede la lontananza azzurra del cielo,
vede lo splendore purpureo delle nubi,
vede la luna e tutte le stelle
e sente mitigata la sua pena.

Perché una cosa le si è rivelata:
di avere trovato un’anima
capace di comprendere il più intimo desiderio,
il suo dolore più profondo.

Volentieri vorrebbe in quel luogo
costruirsi una silenziosa dimora:
delle chiare e dolci onde
sa di potersi fidare senza riserva.

E si sente completamente risanata
mentre si rivolge all’acqua
come alla creatura percepita:
Oh, non ti scordare, non ti scordar di me!